Questo post sarà volutamente scarno. privo di immagini. Solo parole, che sono, forse, più amare di molte altre.
Una telefonata lo interruppe. Non se l’ aspettava!
La voce sabbiata che lo aveva accompagnato nelle notti più lunghe della sua vita, quella che gli aveva sussurrato ogni pensiero e ricordato più volte il suo nome, ora era lì…lontana dalle sue labbra, vicino al suo orecchio.
“Non andare via da me” così disse, e poi smise di dire. Un pianto risucchiò il suo respiro.
La bocca odorosa di rose asciutta dai pensieri mormorava parole.
Lui non capiva, non sentiva.
Il rumore del mare e della terra chiusi in una stanza buia e silenziosa si mescolavano al sapore salmastro delle sue lacrime, che sembravano fatte di mare.
Doveva mentire per coprire la verità dei suoi sentimenti.
Quello era il risultato di un anno intero passato in un solo giorno, tutto perso in un ricordo sbiadito.
Lentamente fece scivolare il suo smartphone lungo il volto, poi lo lasciò cadere al suolo, con noncuranza.
Troppi anni era stato da solo per riuscire ad accettare ciò che per lui era altro, ciò che per lui era diverso; quindi pericoloso.
La storia ci insegna come il principale motivo di un conflitto sia quello di prevaricare sull’altro, per la paura che l’altro prevarichi su di noi. Religione, denaro, odio, vendetta, tutti abiti che celano la parola potere. Aver la meglio su ciò che per noi è diverso. Dominare ciò che ci incute timore.
Il suo animo poco belligerante, rifuggiva ogni tipo di lotta, rifiutava il potere, più per la paura di perderlo che per inesperienza nel possederlo, agognando viscidamente il giorno in cui fosse arrivato il suo turno.
Non riusciva a vedere lontano, il suo incoercibile lato romantico continuava a fargli sognare che le cose si sarebbero aggiustate da sole, un giorno. Pensava che se tutto gli fosse andato male nella vita, prima o poi avrebbe almeno avuto diritto all’ eredità sulla sua piccola dimora che comunque gli avrebbe fruttato abbastanza per poter realizzare qualche piccolo sogno covato una vita intera. Ma i conti erano altri, la matematica non ha mai mentito, nemmeno a quelli che crearono dei numeri finti, o immaginari, per far tornare i propri conti. Avrebbe avuto sessant’anni o più, quando tutto ciò si sarebbe avverato e a quel punto avrebbe già perso una vita o forse due, senza aver fatto ciò che voleva. Ne valeva la pena?
La sua testa era lontana dalla verità. La verità, quella megera che rovina ogni finto e blando fantasticare. Poteva passare le ore guardando il muro di fronte la sua scrivania, proiettandovi immagini di un futuro migliore.
Era un uomo speranzoso di quelli che si nutrono del cibo dei poveri d’ animo e dei vigliacchi, ma a lui piaceva considerarsi un sognatore.
A tutti piace considerarsi sognatori, per nascondersi dai propri fallimenti reali. Lui d’altro canto continuava a masticare la sua vita e a mandar giù quei bocconi aridi e amari che ogni giorno gli offrivano, credendo realmente che alla fine avrebbe potuto godere del suo dessert.
A suo avviso sarebbe dovuto essere immancabile il lieto fine, perché in tutte le cose ce ne può essere uno, una cena, una partita, una fiaba, in tutto si può trovare un lieto fine. E questa forza suggellava la convinzione che anche la sua stessa vita avrebbe avuto un lieto fine.
Continuò a guardar la parete inebetito nelle sue costruzioni mentali, dimenticando la voce che aveva detto e poi smesso di dire per altro tempo, non seppe quanto finchè non si accorse che fuori era oramai sera. La sera il suo momento preferito.
Dopo trenta anni e non so quante lune ti rendi conto che più ti affanni a cambiare e più muori sempre uguale.