Buongiorno e benvenuti (o ben ritrovati) in Altrimondi, il mio (e vostro, se vorrete) personale “magazine” fanta-horror-scientifico e chi più ne ha più ne metta.
Oggi inauguriamo una nuova “sezione”, un nuovo spazio che si occuperà giustappunto… di spazi. Luoghi e contrade dell’impossibile, province dell’immaginario, frammenti di una geografia dell’ultramondo tutta da esplorare e disegnare. Insomma, quel genere di località in cui si approda quando si finisce… Fuori rotta.
Antitesi ideale del Locus Amoenus virgiliano e dell’Hortus Conclusus medievale, il Locus Horridus – il postaccio, per capirci – è uno dei capisaldi dell’epos fantastico. Il recente successo del serial The Terror mostra peraltro chiaramente come l’esotismo di paesaggi remoti e inospitali – unito a un pizzico d’avventura “in salsa ottocentesca” e al brivido del sangue – sia ancora oggi capace di stuzzicare le sinapsi e l’attenzione dall’audience. Tutti elementi che vengono utili al nostro itinerario, perché è proprio da laggiù, dalle vivaci suggestioni culturali del XIX secolo, che muoveremo i primi passi…
PS - Le immagini riportate nel post sono tutte di mia esclusiva proprietà.
Narra la leggenda che… In un soleggiato mattino di primavera del 1822, il medico di campagna Gideon Mantell si recò – accompagnato dalla moglie Ann Mary – da un paziente nei pressi di Cuckfield, nel Sussex. In quei giorni il sud dell’inghilterra era baciato da un clima insolitamente dolce e la signora Mantell attese volentieri la fine della visita bighellonando intorno alla casa del malato. Fu così che sì imbattè per caso in dei curiosi sassi, nei quali erano visibilmente incastonati alcuni oggetti bruni, allungati, stranamente lucidi. Il buon Gideon – che coltivava un appassionato interesse per il mondo fossile – non tardò a intuire che si trattava di qualcosa di significativo e decise di includerli nel suo The Fossils in the South Downs (1825), libro a cui lavorara da anni, coadiuvato proprio dalle illustrazioni della consorte… Che questa sia o meno la vera storia del loro ritrovamento, poco importa: grazie alla determinazione con cui Mantell ne promosse lo studio, i denti dell’iguanodon (perché di questo si trattava) segnarono sicuramente una svolta nella storia della paleontologia. Anche se varie ossa erano state rinvenute nel corso degli ultimi due secoli – accompagnate da altrettante ipotesi sulla loro origine – solo ora prendeva infatti forma l’idea che appartenessero a quelle “lucertole spaventose” (i dinosauri, per l’appunto) che Richard Owen avrebbe battezzato nel 1842. Non vi trascinerò oltre nei meandri di una vicenda scientifica che – per quanto affascinante – è lunga, intricata e complessa. Ci basti sapere che nel giro di pochi decenni i futuri protagonisti di Jurassic Park divennero eccezionalmente famosi, un fenomeno di costume, potremmo dire, che si dipanava tanto sulle pagine dei saggi scientifici quanto su quelle dei giornali popolari e nella fantasia grafica di illustratori e artisti. Lo scultore Benjamin Waterhouse Hawkins, per esempio, realizzò a Londra alcuni celebri modelli di dinosauro nel 1853, uno dei quali, opportunamente “scoperchiato” fu anche adibito a sala da pranzo per un banchetto di scienziati e notabili…
L’espressione “questo fu in assoluto il primo volume a parlare di…” va sempre usata con estrema prudenza quando si tratta di storia del Fantastico. Ogni due per tre – infatti – salta fuori uno studioso che, frugando tra archivi, biblioteche e vecchie riviste, trova un fondamentale reperto fino ad allora perduto. Naturalmente, non ci interessa qui stabilire record e primati di tal genere, per cui, in cerca del primo romanzo dinosauresco, possiamo rivolgerci serenamente a quello che, in virtù della sua fama, salta subito all’occhio: il Voyage au centre de la Terre di Jules Verne (1864). La teoria darwiniana – ufficializzata nel 1859 con On The Origins of Species – è coinvolta in un furibondo dibattito pubblico e lo scrittore francese, sempre attento a mode e tendenze, non esita a saltare sul treno che passa. La vicenda che racconta è del resto sul crocevia tra la “febbre dei dinosauri” e un’altra tipica ossessione dell’Ottocento (e dei primi del Novecento) letterario: l’interesse per tutto ciò che è sotterraneo. Da I misteri di Parigi di Eugène Sue a I miserabili di Hugo, la letteratura popolare si avventura spessissimo in cunicoli, fognature, metropolitane, affascinata forse dai prodigi ingegneristici che in quegli anni rimodellano il sottosuolo delle metropoli europee. Nel 1871 Edward Bulwer-Lytton, esempio di letterato-occultista-politico tutt’altro che insolito all’epoca, pubblica The Coming Race, dove si ipotizza – secondo i dettami della cosiddetta “teoria della Terra cava” – che nelle profondità del nostro pianeta sopravviva un’antichissima popolazione di super-umanoidi ancestrali. Un tema che (con l’inevitabile deriva horror) sarà ripreso da Howard Phillips Lovecraft nel suo The Rats in the Walls (1923) e che riaffiorerà – pensate! – persino in un filmaccio del 1956 come The Mole People (da noi: Il tempio degli uomini talpa, di Virgil W. Vogel)… Scusate, sto mettendo troppa carne al fuoco. Torniamo ai dinosauri.
L’idea di uno spazio separato e chiuso come il centro della Terra – dove i protagonisti del romanzo verniano trovano intatte le vestigia del mondo antidiluviano, grandi sauri inclusi – torna più che mai in The Lost World di sir Arthur Conan Doyle. Pubblicata a puntate nel 1912, sul The Strand Magazine, l’immaginaria spedizione del professor George Edward Challenger raccoglieva la passione coloniale per esplorazioni e scoperte, mescolandola con la letteratura d’evasione dei tempi, che – da Salgari a Rider Haggard – scarrozzava uomini di scienza e avventurieri su e giù per le giungle del pianeta. “Challenger e i suoi intimi amici” – così ce la racconta lo storico e scrittore Brian Aldiss nel saggio Billion Year Spree (1973) – “scoprono un imponente vulcano nel bacino amazzonico, nel cui cratere, isolato dal mondo esterno, è sopravvissuto un frammento del mondo preistorico: tribù dell’Età della Pietra, uomini-scimmia, dinosauri e tutto il resto”.
La terza soluzione ideata dai narratori del Fantastico per rendere (più o meno) credibile la sopravvivenza di biosistemi così antichi arriva di lì a poco, subito dopo la conclusione del primo conflitto mondiale. È l’isola di Caspak, partorita niente meno che dall’inventore di Tarzan Edgar Rice Burroughs nel suo The Land the Time Forgot (1918), primo passo di una trilogia romanzesca in cui i cari lucertoloni coesistono – ancora una volta al di fuori di qualsiasi ordine cronologico sensato – con alcuni mammiferi primordiali, nonché con i nostri progenitori scimmieschi.
Il centro del pianeta, un antico vulcano spento e un’isola nel Pacifico meridionale. Se questi tre “luoghi letterari” possono essere considerati come le imprescindibili colonne portanti della paleo-geografia fantastica dei dinosauri, innumerevoli sono gli sviluppi e le letture ulteriori che – in special modo sul grande schermo – hanno successivamente arricchito e articolato il tema (molto prima che Michael Crichton si affacciasse sulla scena). Vorrei parlarvene subito, ma credo proprio di essermi già dilungato troppo….
Grazie a tutti, ci sentiamo presto!
Leggendo mi e' venuto in mente un vecchio film con, non ridere, un sommergibile da guerra con degli uomini che combattevano contro dei dinosauri. Sono impazzita?
Ciao @roch66, no, non credo che tua sia impazzita :-) il film di cui parli dovrebbe essere proprio "La terra dimenticata dal tempo", di Kevin Connor, 1974... Grazie!
Grazie a te! Era sepolto nella mia memoria.
Ma il luogo paleo-geografico fantastico di Jules Verne in salsa darwiniana, così come quello di Doyle in cui si scorge il colonialismo paternalista britannico di inizio Novecento, oltre ad essere un locus horridus non richiama il concetto di una aurea aetas ?Bellissimo post @gianmaria, ho dovuto rileggerlo più e più volte per riuscire ad assorbirlo in toto, tante sono le sfaccettature e le ramificazioni.
Caro @grendelorr, grazie mille! Come sempre, il tuo è un commento arguto e stuzzicante – che apre molti possibili percorsi di riflessione. Così di primo acchito, direi che senza dubbio nelle "scenografie" di queste narrrazioni si intravede una fascinazione per ciò che è primordiale, elementare, incontaminato. Più che all'Età dell'Oro di derivazione pitagorico-platonica, io mi orienterei però sul mito (di origine rousseuiana prima e romantica poi) della "Natura" come matrice incorrotta (ed eticamente indifferente) di ogni "purezza" ideale... Un mito ricco di ambiguità irrisolte, ma sicuramente radicato in profondità nella storia culturale europea.